N. 148 SENTENZA 4 - 25 luglio 2024

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Famiglia - Impresa familiare - Diritti e  tutele  del  familiare  che
  presta in modo  continuativo  la  sua  attivita'  di  lavoro  nella
  famiglia o nell'impresa familiare - Inclusione anche del convivente
  di fatto - Omessa previsione - Violazione dei diritti  fondamentali
  della persona, irragionevolezza, disparita' di  trattamento  e  del
  diritto al lavoro  e  alla  giusta  retribuzione  -  Illegittimita'
  costituzionale in parte qua.  
Famiglia - Impresa familiare - Diritti e  tutele  del  convivente  di
  fatto che presta in modo continuativo la sua  attivita'  di  lavoro
  nella famiglia o nell'impresa familiare -  Tutela  differenziata  e
  inferiore rispetto al  familiare  -  Illegittimita'  costituzionale
  consequenziale, a seguito di  pronuncia  di  accoglimento  riferita
  alla tutela del convivente nell'impresa familiare. 
- Codice  civile,  artt.  230-bis,  in  particolare  terzo  comma,  e
  230-ter. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 4, 35, 36, e 117, primo comma; Carta  dei
  diritti fondamentali dell'Unione europea, art. 9;  Convenzione  per
  la  salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo   e   delle   liberta'
  fondamentali, artt. 8 e 12. 
(GU n.31 del 31-7-2024 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta da: 
Presidente:Augusto Antonio BARBERA; 
Giudici  :Franco  MODUGNO,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni   AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo  BUSCEMA,
  Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo  PATRONI
  GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella  SCIARRONE
  ALIBRANDI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt.  230-bis,
commi primo e terzo, e, «in via derivata», 230-ter del codice civile,
promosso  dalla  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  civili,  nel
procedimento vertente tra I. U. e C. D. e altri, con ordinanza del 18
gennaio 2024, iscritta  al  n.  36  del  registro  ordinanze  2024  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  12,  prima
serie speciale, dell'anno 2024, la cui trattazione e'  stata  fissata
per l'adunanza in camera di consiglio del 2 luglio 2024. 
    Udito nella camera di consiglio del  4  luglio  2024  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso; 
    deliberato nella camera di consiglio del 4 luglio 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del  2024)
la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35
e  36  della  Costituzione,  all'art.  9  della  Carta  dei   diritti
fondamentali dell'Unione  europea  (CDFUE)  ed  all'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione  agli  artt.  8  e  12  della  Convenzione
europea dei diritti  dell'uomo  (CEDU),  dell'art.  230-bis  (Impresa
familiare), primo e terzo comma, del codice civile,  nella  parte  in
cui non include nel novero dei familiari il convivente  more  uxorio,
e, «in via derivata», dell'art. 230-ter (Diritti del convivente) cod.
civ., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente  la
propria  opera  nell'impresa  dell'altro   convivente,   una   tutela
inferiore rispetto a quella prevista per il familiare». 
    1.1.- Le questioni  sono  sollevate  nel  corso  di  un  giudizio
introdotto da I. U., nei confronti dei figli e coeredi di E. D., gia'
coniugato con altra donna, di cui esponeva di  essere  stata  stabile
convivente dal 2000 sino  al  decesso  avvenuto  nel  novembre  2012,
dinanzi al Tribunale ordinario di Fermo, in funzione di  giudice  del
lavoro, con domanda di accertamento  dell'esistenza  di  una  impresa
familiare, relativa ad una  azienda  agricola,  e  di  condanna  alla
liquidazione della quota spettante quale partecipante all'impresa. 
    La ricorrente aveva dedotto che la convivenza, iniziata in  altra
localita', era proseguita presso  il  fondo  rustico  acquistato  dal
defunto  -  acquisto  al  quale  erano  via  via   susseguite   altre
acquisizioni, la costruzione di una cantina  per  la  produzione  del
vino nonche' l'avviamento di un'attivita' di ricezione turistica -  e
di  aver  prestato  attivita'   lavorativa   in   modo   continuativo
nell'azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro
delle imprese) fino al 2012. 
    1.2.- Il Tribunale di Fermo aveva rigettato la domanda  rilevando
che il convivente di fatto non poteva essere considerato  «familiare»
ai sensi dell'art. 230-bis, terzo comma, cod. civ. 
    La Corte d'appello di Ancona, sezione lavoro, aveva confermato il
rigetto    sull'identico    presupposto,    escludendo,     altresi',
l'applicabilita' dell'art. 230-ter cod. civ., in quanto  il  rapporto
di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della legge 20
maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra  persone
dello  stesso  sesso  e  disciplina  delle  convivenze),   che,   con
l'aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi
la disciplina dell'impresa familiare. 
    1.3.- Con il ricorso per cassazione, la ricorrente ha  denunciato
la violazione e falsa applicazione dell'art. 230-bis  cod.  civ.,  in
relazione all'art.  360,  primo  comma,  numero  3),  del  codice  di
procedura  civile,  per  la  mancata  considerazione   delle   mutate
sensibilita' sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre  che
delle  aperture  della  giurisprudenza  sia  di  legittimita'  e  sia
costituzionale, che avrebbero consentito di applicare  la  disciplina
dell'impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo  preveda
espressamente, in base ad una  lettura  costituzionalmente  orientata
dell'art. 230-bis cod. civ.; ha dedotto,  poi,  la  violazione  degli
artt. 230-bis e 230-ter cod. civ.  e  dell'art.  11  delle  preleggi,
dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattivita',  non
presidiato da una  norma  costituzionale,  ove  cio'  risponda  a  un
criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. 
    1.4.- La Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  con  ordinanza
interlocutoria, ha chiesto l'intervento nomofilattico  delle  Sezioni
unite al fine di chiarire se l'art. 230-bis, comma terzo,  cod.  civ.
potesse essere evolutivamente interpretato -  in  considerazione  del
mutamento dei costumi nonche' della giurisprudenza  costituzionale  e
della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra  persone
dello stesso sesso - in chiave di esegesi orientata agli artt. 2,  3,
4 e 35 Cost.,  nonche'  all'art.  8  CEDU,  nel  senso  di  prevedere
l'applicabilita' della relativa disciplina anche al  convivente  more
uxorio,  laddove  la  convivenza  di  fatto  sia  caratterizzata   da
stabilita'. 
    1.5.- Le Sezioni unite  rimettenti  osservano  che  la  rilevanza
delle questioni discendeva  dal  fatto  che  solo  all'esito  di  una
dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma  dubitata,
nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente
more   uxorio,   si   sarebbe   determinata    la    necessita'    di
quell'accertamento in punto di  fatto,  pretermesso  dai  giudici  di
merito, circa l'effettivita' e la continuita' dell'apporto lavorativo
nell'impresa familiare determinante ai fini dell'accrescimento  della
produttivita' dell'impresa. 
    1.6.- In punto di non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
ripercorre   la   genesi   dell'istituto    dell'impresa    familiare
disciplinata dall'art. 230-bis cod.  civ.,  quale  superamento  della
comunione tacita familiare prevista per il settore agricolo dall'art.
2140 cod. civ. previgente, e la sua finalita' di conferire una tutela
minima a quei rapporti di lavoro comune che si  svolgono  nell'ambito
di aggregati familiari che non possono  contare  su  piu'  specifiche
discipline di protezione sia in ambito lavorativo che societario.  Ne
richiama  la  natura  autonoma,  di   carattere   speciale   ma   non
eccezionale, e residuale rispetto ad ogni  altro  rapporto  negoziale
eventualmente configurabile (Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,
sentenza 15 giugno 2020, n. 11533); la forma  individuale  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenze 18 gennaio 2005,  n.  874  e  15
aprile  2004,  n.  7223);  l'incompatibilita'   con   la   disciplina
societaria (Corte di cassazione, sezioni  unite  civili,  sentenza  6
novembre 2014, n. 23676);  il  regime  fiscale,  con  i  redditi  dei
familiari collaboratori definiti di lavoro, e quindi non assimilabili
a redditi di impresa (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 2
dicembre 2008, n. 28558 e ordinanza 20 dicembre 2019,  n.  34222);  i
diritti che ne derivano,  sia  di  tipo  partecipativo  sia  di  tipo
economico-patrimoniale, ed i presupposti, quali:  a)  l'esistenza  di
una  impresa  individuale  ;  b)  la  prestazione  lavorativa  svolta
nell'interesse dell'impresa medesima dal familiare, con carattere  di
continuita', ossia con costanza e regolarita', ma non necessariamente
esclusiva;  c)  in  alternativa,  la  prestazione  di  lavoro   nella
famiglia, ma senza che possa assumere  rilevanza  la  mera  attivita'
domestica,  essendo  sempre  necessario  un  collegamento  causale  e
funzionale con l'attivita' di impresa. 
    1.7.- Il rimettente evidenzia poi che la dottrina si era a  lungo
interrogata sulla possibilita'  di  applicare  estensivamente  l'art.
230-bis  cod.  civ.  al  convivente  more  uxorio,  valorizzando  che
l'impresa familiare rappresenta una  forma  generale  di  tutela  del
lavoro prestato per quello spirito di solidarieta' che intercorre nei
rapporti tra parenti e  tra  coniugi,  sicche'  anche  il  convivente
stabile ha titolo per partecipare all'impresa familiare in quanto  la
sua collaborazione lavorativa gratuita  nell'ambito  di  uno  stabile
rapporto  affettivo  di  coppia  trova  la  sua  causa  nella  stessa
solidarieta' familiare.  Rileva  ancora  il  giudice  a  quo  che  la
giurisprudenza, sia di merito che di legittimita', dopo una  iniziale
chiusura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze  29  novembre
2004, n. 22405 e 2 maggio 1994, n. 4204), aveva manifestato una certa
inversione di tendenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza
15 marzo 2006, n. 5632); che la legge n. 76  del  2016,  all'art.  1,
comma 36, aveva previsto che «si intendono per "conviventi di  fatto"
due persone maggiorenni unite  stabilmente  da  legami  affettivi  di
coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da
rapporti di parentela, affinita'  o  adozione,  da  matrimonio  o  da
un'unione civile», con l'art. 1, comma 46,  aveva  introdotto  l'art.
230-ter cod. civ., secondo il quale: «[a]l convivente  di  fatto  che
presti  stabilmente  la  propria   opera   all'interno   dell'impresa
dell'altro  convivente   spetta   una   partecipazione   agli   utili
dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con  essi  nonche'  agli
incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento,  commisurata
al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non  spetta  qualora
tra  i  conviventi  esista  un  rapporto  di  societa'  o  di  lavoro
subordinato», e con l'art. 1, comma 20, aveva reso applicabile l'art.
230-bis cod. civ. anche all'unione civile. 
    1.8.-  Le  Sezioni  unite  osservano  quindi  che,   nell'attuale
disciplina, mentre ognuna  delle  parti  dell'unione  civile  rientra
nell'elenco dei familiari di cui all'art. 230-bis, terzo comma,  cod.
civ., per il convivente stabile,  ai  sensi  dell'art.  230-ter  cod.
civ., opera una tutela minore rispetto a quella  del  familiare;  che
per  il  principio  d'irretroattivita'  di  cui  all'art.  11   delle
disposizioni preliminari al codice civile,  come  gia'  avvenuto  per
l'art. 230-bis cod. civ., l'art. 230-ter cod. civ. non  puo'  trovare
applicazione a situazioni giuridiche definitivamente  compiute  sotto
il regime anteriore alla riforma del 2016,  dovendosi  poi  escludere
che la norma, poiche' costitutiva di nuovi diritti,  sia  applicabile
in  quanto  meramente  ricognitiva  di  principi  gia'  acquisiti  al
panorama giuridico vigente; che, sebbene la  disposizione  introdotta
nel 2016 sia significativa di una estensione delle tutele  in  favore
del convivente di fatto, i due articolati - artt. 230-bis  e  230-ter
cod. civ. - non risultano perfettamente  coincidenti,  in  quanto  il
secondo attribuisce al convivente una serie di  diritti  inferiore  a
quella riconosciuta al coniuge. 
    In ogni caso, secondo il giudice a  quo,  il  riconoscimento  del
"fatto" della convivenza come una posizione giuridica  meritevole  di
tutela in quanto tale, costituisce un vero e proprio obbligo  imposto
dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3,  4,
35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE)  e  convenzionali  (art.  8  CEDU),
rispetto al quale  il  legislatore  nazionale  rimaneva  libero,  nei
limiti della ragionevolezza e dell'effettivita', nella  scelta  della
misura dell'intervento, residuando un margine di discrezionalita' tra
la disciplina prevista per il matrimonio e  le  unioni  civili  e  la
convivenza, in considerazione del  peculiare  sentire  sociale  della
collettivita'  nazionale.  Evidenzia,  quindi,  il   rimettente   che
dall'evoluzione  della   societa',   della   legislazione   e   della
giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, emergerebbe ormai che
la famiglia va considerata sia nella versione tradizionale,  composta
da due membri  di  sesso  diverso  uniti  in  matrimonio,  sia  nella
versione moderna costituita da coppie non  unite  in  matrimonio,  ma
semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello  stesso
sesso;  che  nessuna  situazione  espressiva  della  scelta   di   un
differente modello familiare puo' restare priva di tutela e  che  con
l'introduzione dell'art. 230-ter cod. civ.  il  legislatore  italiano
avrebbe adempiuto all'obbligo sopra descritto dettandone i limiti e i
confini mediante l'individuazione di un minimo essenziale  di  tutela
da riconoscere alle famiglie di fatto, in contrapposizione alle  piu'
ampie  garanzie  proprie  delle  famiglie  "di  diritto"  o  famiglie
"formali", con una tecnica legislativa "per sottrazione",  nel  senso
della  previsione  di  una  disciplina  specifica  piu'  ristretta  e
leggera, meno garantistica per la posizione del convivente lavoratore
rispetto a quella del familiare-lavoratore di  cui  all'art.  230-bis
cod. civ. 
    1.9.- Tanto premesso, il giudice a  quo  rileva  che,  pur  nella
consapevolezza di un'insopprimibile  differenza  strutturale  tra  la
condizione del coniuge e quella del convivente more  uxorio,  qualora
si individuasse la ratio  dell'istituto  dell'impresa  familiare  nel
rifiuto della sia pur presunta gratuita' della prestazione lavorativa
resa nell'ambito di una certa relazione sociale, di vita, di  affetti
e di solidarieta', tale ratio potrebbe legittimamente  trasferirsi  a
rapporti, diversi da quello  di  coniugio,  nei  quali  si  ravvisino
caratteri analoghi e che  se  a  fondamento  della  tutela  enucleata
dall'art. 230-bis cod. civ. si ponesse  la  prestazione  continuativa
del familiare, guardata come partecipazione ad un progetto lavorativo
comune al gruppo, ravvisando il fulcro della disciplina nella  tutela
della  persona  che  lavora,  le  obiezioni  circa   la   sostanziale
differenza tra posizioni di famiglia legittima e  famiglia  di  fatto
perderebbero   di   forza   persuasiva,   in   presenza   di   valori
costituzionali di  riferimento  quali  la  dignita',  la  liberta'  e
l'uguaglianza. A giudizio delle Sezioni unite, se l'art.  230-bis  e'
preordinato alla protezione del bene  "lavoro"  in  ogni  sua  forma,
questo bene non muta a seconda del soggetto che lo svolge,  per  cui,
senza dover porre sullo  stesso  piano  coniugio  e  convivenza  more
uxorio, si tratterrebbe di  riconoscere  un  particolare  diritto  al
convivente all'interno di  un  istituto  che  non  puo'  considerarsi
eccezionale avendo una funzione residuale e  suppletiva,  diretta  ad
apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro
comune che si svolgono negli aggregati familiari  e  che  in  passato
vedevano  alcuni  membri  della  comunita'  familiare  esplicare  una
preziosa attivita' lavorativa,  in  forme  molteplici,  senza  alcuna
garanzia economica e giuridica. 
    1.10.-  Ricorda,  ancora,  il   rimettente   che   il   referente
costituzionale della famiglia di fatto  va  individuato  nell'art.  2
Cost., quale formazione sociale stabile e duratura in cui  si  svolge
la   personalita'   dell'individuo,   espressione   di   una   scelta
esistenziale, libera e consapevole; che seppure il matrimonio e,  per
volonta' del legislatore, l'unione  civile,  appartengono  a  modelli
cosiddetti «istituzionali», mentre  la  convivenza  di  fatto  e'  un
modello «familiare non a struttura istituzionale», in entrambi i casi
si sarebbe in presenza di modelli familiari  dai  quali  scaturiscono
obblighi di solidarieta' morale e materiale, anche  a  seguito  della
cessazione dell'unione istituzionale e dell'unione di fatto,  laddove
la convivenza more uxorio e' in concreto capace di corrispondere alle
medesime esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi
della  persona  allo  stesso  modo  del   rapporto   coniugale;   che
l'indicazione dell'art. 2 Cost.,  nel  senso  di  una  considerazione
unitaria delle due situazioni e non gia' differenziata, e'  destinata
ad operare anche rispetto al contributo collaborativo di cui all'art.
230-bis  cod.  civ.  che  trova  pur  sempre  causa  nei  vincoli  di
solidarieta' ed affettivita'  esistenti,  a  prescindere  dal  legame
formale; che l'irragionevole esclusione da parte  della  disposizione
suddetta di ogni tutela, anche minima, nei confronti  del  convivente
di fatto rileva: a) con riguardo all'art. 3 Cost., sotto  il  profilo
della violazione del principio di uguaglianza, atteso  che  determina
una discriminazione tra soggetti che esplicano la medesima  attivita'
in modo continuativo nell'impresa  familiare,  fondata  sulla  (sola)
condizione personale  (la  qualita'  di  coniuge)  a  fronte  di  una
sostanziale  equivalenza  nell'attivita'  dell'impresa,  finendo  per
porre un ostacolo di ordine economico all'uguaglianza dei  cittadini;
b) con riguardo all'art. 4 Cost., per  la  violazione  dello  stretto
legame tra il lavoro, che non e' fine in  se'  o  mero  strumento  di
guadagno, ma mezzo di affermazione  della  personalita'  del  singolo
oltre che garanzia di sviluppo  delle  capacita'  umane  e  del  loro
impiego, ed i  valori  di  effettiva  liberta'  e  dignita'  di  ogni
persona; c) con riguardo agli artt. 35,  primo  comma,  e  36,  primo
comma,  Cost.,  quali  baluardi  a  garanzia  del  lavoro   e   della
retribuzione,  considerato  che  le   prestazioni   lavorative   rese
nell'ambito di un rapporto  di  convivenza  more  uxorio,  mosse  dal
medesimo  spirito  di  solidarieta'  che   caratterizza   il   lavoro
coniugale, sarebbero destinate a rimanere prive di tutela. 
    1.11.- Quanto al diritto unionale, le  Sezioni  unite  richiamano
l'art. 9 CDFUE, ove il «diritto di sposarsi» viene  riconosciuto  tra
le liberta' fondamentali tutelate dal capo secondo in modo  disgiunto
rispetto al «diritto di fondare una famiglia», cosi' realizzando  una
significativa apertura nei confronti  delle  famiglie  di  fatto,  in
quanto la meritevolezza  degli  interessi  perseguiti  attraverso  la
scelta, del tutto legittima,  di  convivere  senza  matrimonio  viene
riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza  di  vincoli
formali  nei  rapporti   familiari,   mentre,   quanto   al   diritto
convenzionale, il riferimento va agli artt. 8, paragrafo 1, e 12 CEDU
che, rispettivamente, sanciscono il diritto al  rispetto  della  vita
privata e familiare e il diritto di  sposarsi  e  di  costituire  una
famiglia, sulla cui base una consolidata giurisprudenza  della  Corte
EDU ha elaborato una nozione di "famiglia" che non e'  limitata  alle
relazioni basate sul matrimonio  ma  puo'  comprendere  altri  legami
"familiari" di fatto, se le parti convivono  fuori  dal  vincolo  del
matrimonio, pur riconoscendo agli Stati  contraenti  la  facolta'  di
accordare una tutela diversificata alle coppie unite in matrimonio. 
    1.12.- Infine,  il  giudice  a  quo  evidenzia  che  una  lettura
estensiva dell'art. 230-bis cod. civ.,  costituzionalmente  orientata
nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi
diritti previsti per  il  coniuge,  sia  economico-partecipativi  che
gestionali,   quale   insieme   di   necessaria   ed    indissolubile
applicazione, determinerebbe una  distonia  sistemica  accordando  ex
post al convivente, la cui attivita' nell'impresa familiare  fino  al
2016 non solo non era tipizzata ma, per la giurisprudenza prevalente,
addirittura esclusa dall'alveo  applicativo  dell'art.  230-bis  cod.
civ.,  una  tutela  per  i  fatti  antecedenti  al  2016  addirittura
superiore a quella poi espressamente prevista dal legislatore con  la
legge n. 76 del 2016, e  che  un'irragionevolezza  dell'art.  230-ter
cod.  civ.,  rilevante  ai  fini   della   eventuale   illegittimita'
costituzionale derivata di tale disposizione, sarebbe ravvisabile nel
fatto che il riconoscimento  del  mero  diritto  a  partecipare  agli
utili, ai beni e  agli  incrementi  non  appare  comunque  idoneo  ad
assicurare  una  sufficiente  tutela  sul   piano   patrimoniale   al
convivente lavoratore, il quale, in caso  di  mancata  produzione  di
utili, finirebbe per essere privato di ogni compenso per  l'attivita'
lavorativa prestata, in  contrasto  con  quello  stesso  obbligo  per
l'ordinamento di prefigurare per esso un nucleo essenziale di tutela,
oltre che con il principio  di  parita'  di  trattamento  del  lavoro
prestato. 
    1.13.- In conclusione, le  Sezioni  unite  ritengono  che  l'art.
230-bis cod. civ. disponendo, al primo comma che  «il  familiare  che
presta in modo continuativo la sua attivita' di lavoro nella famiglia
o nell'impresa  familiare  ha  diritto  al  mantenimento  secondo  la
condizione  patrimoniale  della  famiglia  e  partecipa  agli   utili
dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con  essi  nonche'  agli
incrementi  dell'azienda,  anche   in   ordine   all'avviamento,   in
proporzione alla quantita' e alla qualita' del  lavoro  prestato»  ed
indicando, al terzo comma, che «[a]i fini della disposizione  di  cui
al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti  entro
il terzo grado, gli affini entro il secondo;  per  impresa  familiare
quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro  il  terzo  grado,
gli affini entro il secondo», ponga concreti dubbi di  illegittimita'
costituzionale  nella  parte  in  cui  non  include  nel  novero  dei
familiari il convivente more uxorio, per violazione degli artt. 2, 3,
4, 35 e  36  Cost.,  nonche'  per  violazione  dell'art.  9  CDFUE  e
dell'art.  117,   primo   comma,   Cost.,   novellato   dalla   legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche  al  titolo  V  della
parte seconda della Costituzione), in relazione agli  artt.  8  e  12
CEDU;   le    censure    di    illegittimita'    costituzionale    si
riverbererebbero,  in  termini  di  illegittimita'  derivata,   anche
sull'art.  230-ter  cod.  civ.  che  non  avrebbe   riconosciuto   al
convivente di fatto la stessa tutela  del  coniuge/familiare  ma  una
tutela differenziata di portata inferiore. 
    2.- Nessuna delle parti del giudizio principale si e' costituita,
ne' e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del  2024)
la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35
e 36 Cost., nonche' all'art. 9 CDFUE e  all'art.  117,  primo  comma,
Cost., in relazione  agli  artt.  8  e  12  CEDU,  dell'art.  230-bis
(Impresa familiare), primo e terzo comma, cod. civ., nella  parte  in
cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e
«in via derivata» dell'art. 230-ter  (Diritti  del  convivente)  cod.
civ., «che applica al convivente di fatto che presti  stabilmente  la
propria opera nell'impresa dell'altro convivente una tutela inferiore
rispetto a quella prevista per il familiare». 
    1.1.- Il giudice a quo e' chiamato a decidere  della  domanda  di
accertamento dell'esistenza di una impresa familiare, e  di  condanna
alla  liquidazione   della   quota   spettante   quale   partecipante
all'impresa, proposta da I. U., innanzi al  Tribunale  di  Fermo,  in
funzione di giudice del lavoro, nei confronti dei figli e coeredi  di
E. D, gia'  coniugato,  di  cui  esponeva  di  essere  stata  stabile
convivente, dal 2000 sino alla data del decesso avvenuto nel novembre
2012,  e  nella  cui  azienda  agricola  deduceva  di  aver  prestato
attivita'  lavorativa  in  modo  continuativo  dal  2004   (anno   di
iscrizione nel  registro  delle  imprese)  fino  al  2012  (anno  del
decesso). 
    1.2.- La ricorrente, soccombente nei  giudizi  di  merito,  aveva
denunciato con il  ricorso  per  cassazione  la  violazione  e  falsa
applicazione dell'art. 230-bis cod. civ., in relazione all'art.  360,
primo  comma,  numero  3),  cod.  proc.   civ.,   di   cui   invocava
l'applicazione in considerazione della mutata sensibilita' sociale in
materia di convivenza, oltre che delle aperture della  giurisprudenza
di  legittimita'  e  della  giurisprudenza  costituzionale  verso  il
convivente more uxorio, nonche' la violazione degli artt.  230-bis  e
230-ter cod. civ. e dell'art. 11 delle preleggi, la cui  applicazione
in deroga al principio di  irretroattivita'  avrebbe  risposto  a  un
criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. 
    1.3.- Le Sezioni unite rimettenti  premettono  che  la  decisione
impugnata trovava il  suo  fondamento  nell'inapplicabilita'  ratione
temporis dell'art.  230-ter  cod.  civ.  e  nella  impossibilita'  di
un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis  cod.  civ.,  sicche'  la
rilevanza delle questioni discenderebbe dal fatto che solo  all'esito
di  una  dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale   della
disposizione censurata, nella parte in cui non include nel novero dei
familiari il  convivente  more  uxorio,  si  sarebbe  determinata  la
necessita' di quell'accertamento in punto di fatto,  pretermesso  dai
giudici di merito, circa l'effettivita' e la continuita' dell'apporto
lavorativo    nell'impresa    familiare    determinante    ai    fini
dell'accrescimento  della  produttivita'  dell'impresa;  evidenziano,
altresi', che una lettura  estensiva  dell'art.  230-bis  cod.  civ.,
costituzionalmente  orientata  nel  senso  di  un  riconoscimento  al
convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il  coniuge,
sia  economico-partecipativi  che  gestionali,   determinerebbe   una
distonia sistemica accordando ex post al convivente, la cui attivita'
nell'impresa  familiare  fino  al   2016   era   esclusa   dall'alveo
applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al
2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore  con
la legge n. 76 del 2016. 
    1.4.- Non ritenendo percorribile la strada di una interpretazione
conforme, data l'insuperabilita' della lettera della  disposizione  e
gli evidenziati rischi di distonia del  sistema,  il  giudice  a  quo
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 230-bis,  primo  e
terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non include il  convivente
more  uxorio  nel  novero  dei  familiari  che   prestano   in   modo
continuativo  attivita'  di  lavoro  nella  famiglia  o  nell'impresa
familiare. 
    1.4.1.- La disposizione censurata si porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 2 Cost., considerando in modo differenziato e non unitario  un
contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, trova
pur  sempre  causa  nei  vincoli  di  solidarieta'  ed   affettivita'
esistenti nell'ambito di modelli familiari,  quali  il  matrimonio  e
l'unione civile da un lato  e  la  convivenza  di  fatto  dall'altra,
capaci  di  corrispondere  allo  stesso   modo   alle   esigenze   di
realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona e  dai
quali, anche a seguito della  cessazione,  scaturiscono  obblighi  di
solidarieta' morale e materiale. Inoltre, in violazione  dell'art.  3
Cost., opererebbe una vera e  propria  discriminazione  tra  soggetti
che, in modo continuativo, esplicano la medesima attivita' lavorativa
nell'impresa  familiare,  cosi'  determinando   una   disparita'   di
trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualita' di
coniuge) che, a  fronte  di  un  apporto  equivalente  nell'attivita'
dell'impresa, finisce per  porre  un  ostacolo  di  ordine  economico
all'uguaglianza dei cittadini. 
    1.4.2.- In contrasto con l'art. 4 Cost., l'art. 230-bis cod. civ.
inciderebbe sullo stretto legame tra il lavoro, che non  e'  fine  in
se' o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di  affermazione
della personalita' del singolo oltre che garanzia di  sviluppo  delle
capacita' umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva liberta'
e dignita' di ogni persona, e, violando altresi' gli artt.  35  e  36
Cost., lascerebbe prive della tutela riconosciuta in presenza  di  un
legame  formale,  prestazioni  lavorative  rese  nell'ambito  di   un
rapporto di convivenza more uxorio  mosse  dal  medesimo  spirito  di
solidarieta' che caratterizza il lavoro  coniugale,  sebbene,  avendo
l'istituto dell'impresa familiare carattere  residuale,  sussista  il
medesimo rischio che le stesse,  non  essendo  possibile  fornire  la
prova specifica di una prestazione a titolo oneroso, vengano ritenute
presuntivamente prestate a titolo gratuito. 
    1.4.3.- Il rimettente denuncia  poi  la  violazione  dell'art.  9
CDFUE che, riconoscendo tra le  liberta'  fondamentali  tutelate  dal
Capo secondo, il «diritto di sposarsi» in modo disgiunto rispetto  al
«diritto  di  fondare  una  famiglia»,  realizza  una   significativa
apertura nei confronti delle famiglie di fatto tutelando, anche al di
fuori della presenza di vincoli formali nei  rapporti  familiari,  la
meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso  la  scelta,  del
tutto  legittima,  di  convivere  senza  matrimonio,  sostituendo  il
tradizionale favor per il matrimonio con la  pari  dignita'  di  ogni
forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale  decida  di
dare la sua  regolamentazione.  Sarebbe  altresi'  in  contrasto  con
l'art. 117, primo comma, Cost, in relazione agli artt. 8 e  12  CEDU,
come evolutivamente interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU
nel senso di non limitare la nozione  di  "famiglia"  alle  relazioni
basate sul  matrimonio,  ma  di  estenderla  anche  ad  altri  legami
"familiari" di fatto, se le parti convivono  fuori  dal  vincolo  del
matrimonio, tanto da circoscrivere la possibilita' di  una  ingerenza
degli Stati nazionali nei diritti alla  "vita  familiare"  sia  delle
coppie sposate  che  di  fatto,  con  la  necessaria  osservanza  dei
principi di legalita', necessita' e proporzionalita',  elaborando  in
talune circostanze dei veri e propri  obblighi  positivi  volti  alla
promozione dei suddetti diritti. 
    1.5.-  Infine,  le  Sezioni  unite  prospettano  l'illegittimita'
costituzionale «in  via  derivata»  (recte:  in  via  consequenziale)
dell'art. 230-ter cod. civ. che, riconoscendo al convivente di  fatto
che presta  stabilmente  la  propria  opera  nell'impresa  dell'altro
convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni  e  agli
incrementi,  applicherebbe  allo  stesso  una   tutela   patrimoniale
inferiore rispetto  a  quella  riconosciuta  al  familiare  dall'art.
230-bis cod.  civ.,  privandolo  di  ogni  compenso  per  l'attivita'
lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili. 
    2.-   Preliminarmente   va   affermata   l'ammissibilita'   delle
questioni. 
    2.1.-  Secondo  l'orientamento  costante  di  questa  Corte,   la
questione  di  legittimita'  costituzionale  e'  ammissibile   quando
l'ordinanza di rimessione e' argomentata in  modo  da  consentire  il
controllo "esterno" della rilevanza attraverso  una  motivazione  non
implausibile del percorso logico compiuto  e  delle  ragioni  per  le
quali  il  giudice  rimettente  afferma   di   dover   applicare   la
disposizione censurata nel giudizio principale (ex plurimis, sentenze
n. 94 del 2023, n. 237 del 2022 e n. 259 del 2021). 
    Nella specie le parti controvertono in ordine agli effetti  della
partecipazione, protratta per  anni,  della  convivente  more  uxorio
all'impresa familiare, di cui era titolare  il  "compagno";  rapporto
cessato nel 2012 a causa del decesso di quest'ultimo. A quella  data,
e per tutta la durata del rapporto - osserva la  Corte  rimettente  -
l'unica disposizione vigente era il censurato art. 230-bis cod.  civ.
e non gia' l'art. 230-ter cod. civ., che, pur concernendo proprio  la
partecipazione del convivente di fatto all'impresa familiare, non era
applicabile  ratione  temporis,   essendo   stato   introdotto   solo
successivamente dalla legge n. 76 del 2016. 
    Tale presupposto interpretativo si fonda sulla non applicabilita'
retroattiva dell'art. 230-ter cod.  civ.,  disposizione  che,  avendo
regolamentato per la prima volta  l'istituto  dell'impresa  familiare
per i conviventi di fatto, non troverebbe applicazione  alla  vicenda
oggetto del giudizio  a  quo,  poiche'  la  convivenza  e  il  lavoro
prestato nell'impresa familiare risultano conclusi nel  2012  per  il
decesso del convivente della ricorrente. 
    In presenza di un rapporto giuridico gia' esaurito alla  data  di
entrata in vigore della nuova norma,  il  presupposto  interpretativo
risulta non implausibile, apparendo anzi conforme alla lettera e alla
ratio della legge n. 76 del 2016. 
    Introducendo l'art. 230-ter cod. civ.  -  come  meglio  si  dira'
oltre  -  il  legislatore  non  ha  inteso  limitare  la   disciplina
preesistente  di  cui  all'art.  230-bis  cod.  civ.,  escludendo  il
convivente  di  fatto  da  alcuni  diritti  (quale  il   diritto   al
mantenimento) spettanti ai partecipanti all'impresa familiare, ma  ha
riconosciuto una tutela nuova nel  caso  di  impresa  familiare  alla
quale partecipi un convivente di  fatto,  sul  ritenuto  presupposto,
implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista. Ha  quindi
introdotto una nuova, autonoma e specifica disciplina, pur di portata
minore rispetto a quella dell'art. 230-bis cod. civ.; disciplina  che
quindi non poteva che operare per il futuro, cosi'  come  ritiene  la
Corte rimettente. 
    Con riferimento ad altri istituti introdotti dalla  legge  n.  76
del 2016, la giurisprudenza di  legittimita'  si  e'  gia'  parimenti
orientata nel senso della loro portata non retroattiva  (in  tema  di
pensione di reversibilita',  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,
sentenza 14 settembre 2021, n. 24694; sezione prima civile, ordinanza
14 marzo 2022, n. 8241). 
    Del resto, all'epoca della riforma del diritto  di  famiglia  del
1975,  quando  fu   introdotto   l'art.   230-bis   cod.   civ.,   la
giurisprudenza si era espressa nel senso  della  irretroattivita'  di
tale  nuova  disposizione  (Corte  di  cassazione,  sezione   lavoro,
sentenza 2 aprile 2013, n. 7981; sezione seconda civile, sentenza  21
ottobre 1992, n. 11500; sezione prima civile, sentenza 6 aprile 1990,
n. 2909; sezione terza civile, sentenza 23 ottobre 1985, n. 5195). 
    Conseguentemente,  ed  a  ragione,  la  Corte  rimettente  si  e'
interrogata in ordine all'applicabilita' della  disposizione  vigente
all'epoca dei fatti (art. 230-bis cod. civ.), piuttosto  che  di  una
disposizione non ancora esistente (art. 230-ter cod.  civ.)  e  della
quale ha plausibilmente ritenuto che non  fosse  possibile  predicare
l'applicazione retroattiva. 
    2.2.- La Corte rimettente ha, poi,  escluso  la  possibilita'  di
un'interpretazione adeguatrice  della  disposizione  censurata  (art.
230-bis  cod.  civ.),  orientata  alla   conformita'   agli   evocati
parametri. 
    Vero e' che da una parte,  l'affermazione  della  esclusione  del
convivente  more  uxorio  tra  i  possibili  componenti  dell'impresa
familiare si rinveniva in alcuni non recenti arresti di quella  Corte
(Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 1994, n. 4204
e sezione seconda civile, sentenza 29 novembre 2004,  n.  22405);  ma
essi non erano in sintonia con altre pronunce  che,  invece,  avevano
ritenuto la possibilita',  per  il  medesimo  convivente,  di  essere
componente di una comunione tacita familiare  (Corte  di  cassazione,
sezione lavoro, sentenze 19 dicembre 1994, n. 10927 e 15 marzo  2006,
n. 5632). 
    Dall'altra parte, le Sezioni unite penali (Corte  di  cassazione,
sentenza 26 novembre 2020-17 marzo 2021, n. 10381), poste a fronte di
un interrogativo analogo - se nella nozione di «prossimi  congiunti»,
prevista dall'art. 384, primo comma, del codice penale, per  definire
l'area di applicabilita' dei «casi di non punibilita'», il convivente
more uxorio, ancorche' non espressamente previsto, potesse  ritenersi
non di meno compreso nell'elenco di cui all'art. 307,  quarto  comma,
cod.  pen.  (secondo  cui  «[a]gli  effetti   della   legge   penale,
s'intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti,  il
coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso,
i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli  zii  e  i
nipoti») - avevano seguito la strada  dell'interpretazione  conforme,
affermando l'inclusione del convivente nel catalogo dei soggetti  che
beneficiano della suddetta «scusante soggettiva». 
    Ma   deve   considerarsi   che   lo    sviluppo    normativo    e
giurisprudenziale, che, con riferimento a specifiche fattispecie,  ha
dato rilevanza -  come  si  vedra'  oltre  -  alla  situazione  della
convivenza more uxorio,  ha  uno  specifico  punto  di  caduta  nella
regolamentazione  dell'impresa  familiare  nell'innovativo   contesto
della disciplina per le unioni  civili  e  le  convivenze  di  fatto,
introdotta dalla legge n. 76 del 2016. 
    Infatti, il comma  13  dell'articolo  unico  della  legge  -  che
prevede il regime patrimoniale dell'unione civile tra  persone  dello
stesso  sesso  -  prescrive  espressamente  che  si   applichino   le
disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI  del
Titolo VI del libro primo  del  codice  civile.  Da  cio'  si  desume
l'applicabilita' dell'art. 230-bis cod. civ. alle unioni civili,  con
conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella  parte
in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il  terzo
grado, gli affini entro il secondo. 
    Invece il comma 46 dello  stesso  articolo  unico  introduce  una
nuova disposizione - l'art. 230-ter cod. civ. - che prevede che «[a]l
convivente  di  fatto  che  presti  stabilmente  la   propria   opera
all'interno   dell'impresa   dell'altro   convivente    spetta    una
partecipazione  agli  utili  dell'impresa  familiare   ed   ai   beni
acquistati con essi nonche' agli incrementi  dell'azienda,  anche  in
ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto  di
partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto
di societa' o di lavoro subordinato». 
    Da  quest'ultima  disposizione,  in  particolare,  si  desume   a
contrario la non applicabilita'  dell'art.  230-bis  alle  convivenze
more  uxorio;  cio'  che  ha  costituito  un  chiaro  dato   testuale
preclusivo dell'interpretazione conforme. 
    Pertanto,  la  Corte  rimettente  ha  ritenuto  che  fosse   solo
possibile   sollevare   -   come   ha   fatto   -   l'incidente    di
costituzionalita'. 
    2.3.- Quanto  poi  alla  non  manifesta  infondatezza,  la  Corte
rimettente ha diffusamente motivato in ordine  alle  ragioni  per  le
quali a suo giudizio la disposizione censurata  e'  suscettibile  dei
sollevati dubbi di legittimita' costituzionale. 
    3.- Giova  preliminarmente  richiamare,  in  sintesi,  il  quadro
normativo di riferimento, che e' caratterizzato da  due  fondamentali
riforme, le quali hanno rispecchiato la  progressiva  evoluzione  dei
legami familiari nella societa' civile: la  riforma  del  diritto  di
famiglia del 1975  e  la  disciplina  delle  unioni  civili  e  delle
convivenze di fatto del 2016. 
    3.1.- L'art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151  (Riforma  del
diritto di famiglia) ha introdotto, nell'autonoma Sezione VI del Capo
VI del titolo VI del Libro primo del codice civile,  l'art.  230-bis,
rubricato «Impresa familiare», che per la prima volta ha riconosciuto
una tutela specifica  a  tutti  coloro  che,  legati  da  vincoli  di
parentela  o  di  coniugio,  partecipano   al   processo   produttivo
dell'impresa gestita  dal  capofamiglia;  il  rapporto  rilevante  e'
quello intercorrente tra un soggetto  e  un  familiare  imprenditore,
allorquando il primo svolga un'attivita'  di  lavoro  continuativa  a
favore del secondo, a cui la disposizione di nuovo conio riconosce un
regime di tutela specifico, ma anche suppletivo, destinato ad operare
solo laddove  familiare  e  imprenditore  non  abbiano  provveduto  a
disciplinare diversamente e in autonomia la  prestazione  di  lavoro,
anche in forma tacita,  attraverso  gli  istituti  lavoristici  o  di
diritto societario. 
    3.2.-  Prima  della   riforma   del   1975,   la   partecipazione
all'attivita'  produttiva  della  famiglia,  anche  se   svolta   con
carattere di prevalenza e di  continuita',  veniva  considerata  alla
stregua  di  una  prestazione  lavorativa   resa   "affectionis   vel
benevolentiae causa", alla quale si applicava una  presunzione  iuris
tantum di gratuita' in virtu' dei vincoli familiari. 
    Sulla base di tale presunzione si escludeva  che  le  prestazioni
rese in ambito  familiare  potessero  generare  pretese  e  obblighi,
giuridicamente vincolanti, azionabili  nei  confronti  del  familiare
imprenditore, beneficiario delle  prestazioni  medesime,  tranne  che
nell'ambito  del  lavoro   prestato   da   familiari   nell'esercizio
dell'agricoltura, ove erano previste le comunioni  tacite  familiari,
regolate dagli usi, in base ai quali erano generalmente  riconosciuti
ai partecipanti  diritti  patrimoniali  (art.  2140  cod.  civ.,  ora
abrogato, per essere la disciplina della comunione  tacita  familiare
confluita in quella dell'impresa familiare,  integrata  sempre  dagli
usi). 
    Negli anni diviene via via piu'  sentita  l'esigenza  di  fornire
strumenti di tutela per evitare che la  comunita'  familiare  potesse
dare  origine  e  copertura  a  situazioni  di  sfruttamento,   nella
consapevolezza che il lavoro gratuito privo di tutela  in  molteplici
contesti familiari non fosse il frutto di  una  scelta  di  liberta',
quanto piuttosto il portato di un  predominio  dell'imprenditore  nei
confronti della moglie e degli altri componenti del nucleo familiare,
quale retaggio di una concezione patriarcale  della  famiglia,  ormai
superata; il marcato ridimensionamento della presunzione di gratuita'
ad opera dell'art. 230-bis cod. civ. ha corrisposto  all'esigenza  di
riconoscere  una  tutela  minima  a  quei  rapporti  di  lavoro  che,
svolgendosi con peculiari caratteristiche  nell'ambito  di  aggregati
familiari, non potevano contare  su  piu'  specifiche  discipline  di
protezione. 
    3.3.- Il fondamento costituzionale  dell'istituto  va  ricondotto
all'art. 29 Cost, ed ancora prima ai principi di  solidarieta'  e  di
eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non meno che  all'art.  35
Cost., secondo cui «[l]a Repubblica tutela il lavoro in tutte le  sue
forme ed applicazioni», all'art. 36 Cost., che riconosce  il  diritto
alla giusta retribuzione, e, non da ultimo, all'art. 37  Cost.,  data
la tendenziale prevalenza del lavoro femminile in  ambito  familiare,
di cui da' conto l'espressa previsione del  secondo  comma  dell'art.
230-bis cod. civ. nell'affermare l'equivalenza del lavoro della donna
a quello dell'uomo. 
    La natura residuale dell'impresa familiare si pone in linea con i
principi ispiratori dell'intera riforma del diritto di  famiglia.  Le
finalita'  di  protezione  dell'istituto,  inteso   a   dettare   una
disciplina di chiusura del sistema del lavoro  familiare,  convergono
verso  la  natura  imperativa  della  norma,   nel   senso   che   la
riconducibilita'  del  rapporto  nell'ambito   della   corrispondente
disciplina non ne consente l'elusione  mediante  il  ricorso  ad  uno
schema negoziale che attribuisca al familiare una posizione deteriore
rispetto a quella da essa garantita. 
    3.4.- In forza della previsione  di  cui  all'art.  230-bis  cod.
civ., il familiare che presta la propria attivita' di lavoro, in modo
continuativo nella famiglia o nell'impresa familiare, cioe' a  favore
di un imprenditore a lui legato, ai sensi del comma terzo, da vincolo
di coniugio, parentela entro il terzo  grado  o  affinita'  entro  il
secondo, gode di una complessiva posizione partecipativa  che  consta
sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori. 
    Sotto il profilo economico, il familiare ha innanzitutto  diritto
al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia  e,
in caso di buon andamento dell'attivita' d'impresa, ha diritto ad una
quota di utili e  di  incrementi,  anche  in  ordine  all'avviamento,
proporzionata alla  quantita'  e  qualita'  del  lavoro  prestato,  e
partecipa, sempre in detta proporzione, ai beni  acquistati  con  gli
utili. 
    Le  decisioni  concernenti  l'impiego   degli   utili   e   degli
incrementi, nonche' quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli
indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono  adottate  a
maggioranza, cosi' garantendo al  familiare  un  trattamento  diverso
rispetto a quello normalmente riservato ad un lavoratore  subordinato
in ragione del particolare vincolo di solidarieta' familiare che lega
i partecipanti all'impresa. 
    3.5.-  Secondo  il  diritto  vivente  l'impresa   familiare   non
costituisce una modalita' di gestione collettiva dell'impresa, bensi'
una forma di collaborazione all'interno di essa e  la  norma  di  cui
all'art. 230-bis cod. civ. disciplina unicamente il rapporto  che  si
instaura tra soggetti - il familiare (o i familiari) e l'imprenditore
- per effetto dello svolgimento della prestazione  di  lavoro,  senza
con cio' interferire sulla imputazione dell'attivita'  d'impresa,  di
cui resta titolare l'imprenditore che e' l'unico  soggetto  ad  agire
sul  piano  dei  rapporti  esterni,  assumendo  il  rischio  inerente
all'esercizio dell'impresa; il  diritto  del  singolo  prestatore  di
lavoro non e' condizionato dall'analogo diritto che spetta agli altri
familiari, in quanto esso e' commisurato alla  qualita'  e  quantita'
del lavoro prestato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18
gennaio 2005, n. 874). 
    Dopo un iniziale contrasto, la giurisprudenza di legittimita'  si
e' consolidata nel configurare l'impresa familiare  solo  qualora  il
titolare dell'impresa sia  un  imprenditore  individuale,  escludendo
quindi l'applicazione dell'art. 230-bis cod.  civ.  a  vantaggio  del
familiare  che  presti  la  propria  opera  nell'ambito  dell'impresa
gestita in forma  societaria  (Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
civili, sentenza 6 novembre 2014,  n.  23676),  mentre,  quanto  alla
possibilita' di fruire della tutela ex art. 230-bis cod.  civ.  anche
per il familiare che presta la propria  attivita'  all'interno  della
famiglia, si e' evidenziata la necessita'  che  il  lavoro  domestico
risulti  strettamente   correlato   e   finalizzato   alla   gestione
dell'impresa  familiare,  quale  espressione   di   coordinamento   e
frazionamento dei compiti nell'ambito  del  consorzio  domestico,  in
vista dell'attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni  o
servizi proprio della stessa (Corte di  cassazione,  sezione  lavoro,
sentenza 19 febbraio 1997, n. 1525). 
    3.6.- L'affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia,
dapprima nella societa' e quindi nella giurisprudenza,  grazie  anche
all'impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo  (sentenza
21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un  approdo
legislativo nella legge n. 76 del 2016,  che  in  un  unico  e  lungo
articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli  distinti:  il
primo, quello dell'unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi,
e' riservato alle coppie formate da persone dello  stesso  sesso;  il
secondo, quello della convivenza di  fatto,  e'  aperto  a  tutte  le
coppie, eterosessuali e omosessuali. 
    3.7.- Quanto al secondo modello (la  convivenza  di  fatto),  che
rileva nel giudizio a quo, la legge  n.  76  del  2016  abbandona  la
rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a  quella  riservata
alla famiglia  fondata  sul  matrimonio  e  valorizza  l'esigenza  di
speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che
vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori
e figli o che si sviluppano con i terzi. 
    Conviventi  di  fatto  sono  definiti,  ai  sensi  del  comma  36
dell'art. 1  della  legge  citata,  «due  persone  maggiorenni  unite
stabilmente da legami affettivi di coppia e di  reciproca  assistenza
morale  e  materiale,  non  vincolate  da  rapporti   di   parentela,
affinita',  adozione,  da  matrimonio  o  da  un'unione  civile».  La
convivenza di fatto implica un "legame affettivo di  coppia";  quindi
non vi rientra la convivenza, ancorche' stabile,  che  sia  meramente
amicale, di sostegno o di compagnia. 
    Il comma 37 aggiunge poi che, ferma restando la  sussistenza  dei
presupposti di cui al  comma  36,  ai  fini  dell'accertamento  della
stabile  convivenza,  occorre  fare  riferimento  alla  dichiarazione
anagrafica di cui all'art. 4 e alla lettera b) del comma 1  dell'art.
13 del  d.P.R.  30  maggio  1989,  n.  223  (Approvazione  del  nuovo
regolamento anagrafico della popolazione residente). La dichiarazione
anagrafica crea una presunzione di stabilita' del  vincolo  affettivo
di coppia e agevola, sul  piano  probatorio,  il  riconoscimento  dei
diritti in favore dei conviventi di fatto. 
    La dichiarazione non puo' esser fatta da  persone  «vincolate  da
rapporti di parentela, affinita'  o  adozione,  da  matrimonio  o  da
un'unione civile», cosi' come gli stessi rapporti sono di impedimento
a contrarre matrimonio (artt. 86 e 87 cod. civ.). 
    I  commi  da  50  a  63  fissano  ex  novo  la   regolamentazione
dell'eventuale contratto di convivenza, mediante cui i conviventi  di
fatto «possono disciplinare i  rapporti  patrimoniali  relativi  alla
loro vita in comune». Il contratto di convivenza richiede  (ex  comma
57, lettera a, non diversamente dal matrimonio ex art. 86 cod.  civ.)
lo stato libero delle parti, essendo nullo in presenza di un  vincolo
matrimoniale,  di  un'unione  civile  o  di  un  altro  contratto  di
convivenza. Le  restanti  disposizioni  si  innestano  nel  solco  di
precedenti normativi  e  giurisprudenziali,  soprattutto  per  quanto
concerne i  diritti  della  coppia  verso  l'esterno,  confermando  o
precisando  facolta'  gia'  riconosciute  ai  conviventi  (quanto  ai
rapporti personali i commi da 38 a 41, 47 e 48;  quanto  ai  rapporti
patrimoniali i commi 44, 45 e 49), oppure,  in  misura  minore,  sono
dirette ad ampliare la  tutela  di  costoro  attribuendo  prerogative
nuove (vedi il comma 42 sul diritto del convivente di  continuare  ad
abitare, per un certo periodo, nella casa di comune  residenza  e  di
proprieta' dell'altro dopo la sua morte o il  comma  65  sul  diritto
agli alimenti in seguito alla cessazione della  convivenza);  restano
affidati alla spontaneita' dei comportamenti tutti quegli aspetti che
caratterizzano  la  gestione  delle  esigenze  della  coppia,   quali
coabitazione,  collaborazione,  contribuzione  ai   bisogni   comuni,
assistenza  morale   e   materiale,   determinazione   dell'indirizzo
familiare e fedelta', durata della relazione. 
    3.8.- Nella legge n. 76 del 2016 la distinzione tra unione civile
da un lato e convivenza di fatto dall'altro, rileva - come si e' gia'
visto - anche con  specifico  riferimento  all'istituto  dell'impresa
familiare. 
    Il comma 20 dell'art. 1 della medesima legge n. 76 del 2016 detta
una disposizione di coordinamento, secondo cui, «[a]l  solo  fine  di
assicurare  l'effettivita'  della  tutela  dei  diritti  e  il  pieno
adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile  tra  persone
dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al  matrimonio
e le disposizioni contenenti le parole "coniuge", "coniugi" o termini
equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti  aventi  forza
di legge, nei regolamenti nonche' negli  atti  amministrativi  e  nei
contratti collettivi,  si  applicano  anche  ad  ognuna  delle  parti
dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di
cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile
non richiamate  espressamente  nella  presente  legge,  nonche'  alle
disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 [...]». 
    In forza  di  tale  disposizione  tra  i  familiari  partecipanti
all'impresa familiare deve annoverarsi la persona dello stesso  sesso
unita civilmente all'imprenditore. 
    In tal senso depone quanto stabilito dal comma  13  del  medesimo
articolo, a mente del quale  «[i]l  regime  patrimoniale  dell'unione
civile tra  persone  dello  stesso  sesso,  in  mancanza  di  diversa
convenzione patrimoniale, e' costituito dalla comunione dei beni.  In
materia di forma, modifica, simulazione e capacita'  per  la  stipula
delle convenzioni patrimoniali si applicano gli  articoli  162,  163,
164 e 166 del codice civile. Le parti non  possono  derogare  ne'  ai
diritti ne' ai doveri previsti dalla legge  per  effetto  dell'unione
civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV,
V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice  civile»;
dall'applicazione della sezione VI del capo VI discende  l'estensione
dell'art. 230-bis cod. civ. alle persone legate dall'unione civile. 
    3.9.- Per  il  convivente  di  fatto  il  legislatore,  in  luogo
dell'inclusione del novero dei soggetti ammessi a godere  del  regime
dell'impresa familiare, ha optato per l'introduzione di una  autonoma
e specifica regolamentazione. 
    Il comma  46  ha  inserito  nel  codice  civile  l'art.  230-ter,
rubricato «Diritti del convivente», che regolamenta le prestazioni di
lavoro  rese  nell'ambito  della  famiglia  di  fatto  dettando   una
disciplina che riconosce al  convivente-lavoratore  una  tutela  piu'
ristretta rispetto  a  quella  prevista  per  i  familiari  dall'art.
230-bis cod. civ. 
    La tutela del convivente  e'  limitata  a  taluni,  circoscritti,
aspetti, quali «una partecipazione agli utili dell'impresa  familiare
ed ai beni acquistati con essi nonche' agli incrementi  dell'azienda,
anche in ordine all'avviamento». 
    L'espresso   riferimento   al   lavoro   prestato    «all'interno
dell'impresa dell'altro convivente» lascia fuori dal perimetro  delle
tutele il lavoro  «nella  famiglia»;  al  convivente  non  spetta  il
diritto  al  mantenimento  ma  solo  una  partecipazione  basata  sui
risultati economici dell'impresa commisurata sul «lavoro prestato»  e
poiche' gli utili e gli incrementi potrebbero anche mancare  in  caso
di risultati negativi dell'azienda, la  sua  tutela  economica  resta
meramente eventuale. 
    Manca la previsione di un diritto di prelazione per  il  caso  di
divisione ereditaria o cessione dell'impresa familiare  e  non  viene
riconosciuto alcun diritto partecipativo, con la conseguenza  che  il
convivente,  pur   collaborando   unitamente   ad   altri   familiari
dell'imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali  e  sugli
indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine
alla eventuale partecipazione  agli  utili  a  cui  avrebbe  diritto;
viene, invece, confermato il carattere residuale della tutela, con la
precisazione che il diritto di partecipazione  non  spetta  nei  soli
casi di esistenza di un rapporto di societa' o di lavoro subordinato. 
    3.10.- A completamento del contesto normativo non puo' non  farsi
cenno ad alcune delle plurime disposizioni che, nel tempo, hanno dato
rilievo alla convivenza di fatto. 
    Nel codice civile sono presenti gli artt.  330,  333  e  342-bis,
quanto all'allontanamento del convivente che maltratta  o  abusa  del
minore, nonche' gli artt. 155-bis e 337-sexies cod.  civ.  che  fanno
espressamente riferimento alla convivenza more uxorio. 
    Alla convivenza coniugale fa riferimento anche  l'art.  199  cod.
proc. pen., nel disciplinare la facolta' dei  prossimi  congiunti  di
astensione dal deporre. 
    La convivenza prematrimoniale dei coniugi,  «in  modo  stabile  e
continuativo», rileva ai fini della  legittimazione  all'adozione  ex
art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del  minore  a  una
famiglia). 
    Quanto  al  prelievo  di  organi  e  di  tessuti,  consentito   a
determinate condizioni, l'art. 3 della legge 1° aprile  1999,  n.  91
(Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di  organi  e  di
tessuti)  riconosce  il  diritto  di  ricevere   informazioni   sulle
opportunita' terapeutiche al coniuge non  separato  o  al  convivente
more uxorio. 
    L'elenco dei soggetti beneficiari dell'elargizione ai superstiti,
di cui all'art. 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore
delle vittime  del  terrorismo  e  della  criminalita'  organizzata),
comprende espressamente i conviventi more uxorio. 
    Nel definire le condizioni di applicabilita' di  speciali  misure
di protezione l'art. 9, comma 5, del decreto-legge 15  gennaio  1991,
n. 8 (Nuove norme in materia di  sequestri  di  persona  a  scopo  di
estorsione e per la protezione dei testimoni  di  giustizia,  nonche'
per la protezione  e  il  trattamento  sanzionatorio  di  coloro  che
collaborano con la giustizia), convertito, con  modificazioni,  nella
legge 15 marzo 1991,  n.  82,  fa  riferimento  anche  a  coloro  che
convivono stabilmente con le persone a rischio. 
    La legge 9 gennaio 2004, n.  6  (Introduzione  nel  libro  primo,
titolo XII, del codice civile del capo  I,  relativo  all'istituzione
dell'amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388,  414,
417, 418, 424, 426, 427  e  429  del  codice  civile  in  materia  di
interdizioni  e  di  inabilitazione,  nonche'   relative   norme   di
attuazione,   di   coordinamento   e   finali)   ha   previsto    che
l'amministratore  di  sostegno  possa  anche   essere   una   persona
stabilmente convivente, la quale puo' altresi' proporre l'istanza  di
inabilitazione o interdizione. 
    L'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e'
previsto  per  le  coppie  di  persone   maggiorenni   «coniugate   o
conviventi» (art. 5 della legge 19  febbraio  2004,  n.  40,  recante
«Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»). 
    Dopo la  legge  n.  76  del  2016,  al  convivente  di  fatto  fa
riferimento anche l'art. 1, comma 255, della legge 27 dicembre  2017,
n. 205 (Bilancio di previsione dello  Stato  per  l'anno  finanziario
2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020)  nel  definire
la figura di caregiver familiare. 
    Anche il novellato art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992,
n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza,  l'integrazione  sociale  e  i
diritti delle persone handicappate),  come  modificato  dall'art.  3,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 giugno 2022,  n.  105
recante «Attuazione della direttiva  (UE)  2019/1158  del  Parlamento
europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa  all'equilibrio
tra attivita' professionale e vita  familiare  per  i  genitori  e  i
prestatori di assistenza e che abroga  la  direttiva  2010/18/UE  del
Consiglio», richiama la figura del convivente di fatto come possibile
beneficiario dei permessi per assistere persone disabili. 
    Parimenti l'art. 42, comma 5, del decreto  legislativo  26  marzo
2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative  in  materia
di tutela e sostegno della maternita' e  della  paternita',  a  norma
dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53),  come  riformulato
dall'art. 2, comma 2, lettera n), del decreto legislativo n. 105  del
2022, prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini  dei
riposi e permessi per assistere i figli con handicap  grave,  sia  la
parte di un'unione civile, sia il convivente di fatto. 
    4.-  Venendo  ora  al  merito,  le  questioni  sono  fondate   in
riferimento agli  artt.  2,  3,  4,  35  e  36  Cost.,  da  valutarsi
complessivamente. 
    5.-  Il  fulcro  delle  sollevate   questioni   di   legittimita'
costituzionale risiede nella portata della tutela del convivente more
uxorio - ossia del «convivente di fatto» ex art. 1, comma  36,  della
legge n. 76 del 2016  -  quale  ritraibile  dalla  Costituzione,  che
all'art. 2 riconosce e garantisce  i  diritti  inviolabili  dell'uomo
nelle «formazioni sociali» ove si svolge la  sua  personalita'.  Tale
e', appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si
affianca a quella che l'art. 29,  primo  comma,  Cost.  riserva  alla
«famiglia come societa' naturale fondata sul matrimonio». 
    Anche recentemente questa Corte ha ribadito  che  il  matrimonio,
inteso quale unione tra persone di sesso  diverso,  e'  riconducibile
all'art. 29 Cost. (sentenze n. 66 del 2024, n. 170 del 2014 e n.  138
del 2010); invece, le convivenze  di  fatto,  al  pari  delle  unioni
civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost.,
all'interno delle quali l'individuo afferma  e  sviluppa  la  propria
personalita' (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138  del
2010). 
    L'emersione delle  convivenze  di  fatto  come  diffuso  fenomeno
sociale e' relativamente recente;  dai  dati  statistici  risulta  la
"moltiplicazione delle unioni libere",  che  ormai  sopravanzano,  in
numero, le famiglie fondate sul matrimonio. 
    In Assemblea costituente, invece, fu presente solo la fattispecie
della famiglia fondata sul matrimonio, radicata  nella  tradizione  e
nel comune sentire del tempo, e il dibattito, vivace e prolungato, si
focalizzo'   sull'incidenza   del    matrimonio    concordatario    e
sull'opportunita'  di  prevederne,  o  meno,  il  suo  carattere   di
indissolubilita'. 
    Ma all'epoca, la convivenza more uxorio non era ignota neppure al
codice civile del 1942, quando  ad  esempio  nella  disciplina  della
dichiarazione giudiziale di paternita' si faceva riferimento al  caso
di convivenza notoria «come coniugi» (art. 260 cod.  civ.).  E  prima
ancora, nella "Relazione Solmi" al Progetto del nuovo codice  civile,
si abbandonava espressamente il termine «concubinato», che recava uno
stigma,   anche   perche'   evocativo   della    sua    (asimmetrica)
criminalizzazione nel codice penale del 1930 (art. 560 cod. pen.), in
favore dell'espressione «convivenza a modo di coniugi». 
    Questa Corte poi dichiarera' l'illegittimita'  costituzionale  di
tale  disposizione  (sentenza  n.  147  del  1969)   e   il   termine
«concubinato» scomparira' per far posto definitivamente a  quello  di
«convivenza a modo di coniugi» o more uxorio e infine, con  la  legge
n. 76 del 2016, a quello di «conviventi di fatto». 
    6.- A partire dagli  anni  Settanta  nella  giurisprudenza  della
Corte trova spazio la "convivenza more uxorio",  ma  per  concorrere,
come fattore comparativo, a mostrare l'ingiustificatezza del  divieto
civilistico di donazioni tra coniugi; divieto  discriminatorio  anche
perche' non operava per i conviventi (sentenza n. 91  del  1973;  per
un'argomentazione simile,  quanto  al  trattamento  deteriore  per  i
coniugi rispetto a quello dei conviventi, vedi anche recentemente  la
sentenza n. 209 del 2022). 
    La storica riforma del diritto di famiglia  del  1975  (legge  19
maggio 1975, n.  151)  apporta  notevoli  modifiche  al  rapporto  di
coniugio, ma contiene solo un limitato riferimento alla convivenza di
fatto, come nel novellato art.  317-bis,  secondo  comma,  cod.  civ.
quanto all'esercizio congiunto della potesta' da parte  dei  genitori
naturali conviventi che avessero entrambi riconosciuto il figlio. 
    Anche   in   questo   contesto   profondamente   riformato,    la
giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato  la  permanente  netta
differenza tra il rapporto di coniugio, fondato sul matrimonio, e  la
convivenza  more  uxorio:  sono  «due  situazioni  [...]   nettamente
diverse» (sentenza n. 6 del 1977). La «convivenza more uxorio  e'  un
rapporto di fatto, privo dei caratteri di  stabilita'  o  certezza  e
della reciprocita' e corrispettivita' dei diritti e doveri,  previsti
dagli artt. 143, 144, 145, 146,  147,  148  cod.  civ.,  che  nascono
soltanto dal matrimonio e sono propri della  famiglia  legittima.  La
coabitazione, infatti, del convivente more uxorio  puo'  cessare  per
volonta' di uno dei conviventi in qualsiasi  momento  anche  mediante
azione giudiziaria» (sentenza n. 45 del 1980). 
    7.- Il punto di svolta puo' essere individuato nella sentenza  n.
237  del  1986,  ove  la  Corte,  chiamata   a   pronunziarsi   sulla
legittimita' costituzionale degli artt. 307, quarto comma, e 384 cod.
pen., sotto il profilo della mancata previsione del  convivente  more
uxorio tra i  prossimi  congiunti  beneficiari  della  causa  di  non
punibilita' (successivamente riconosciuta - come si e' gia'  detto  -
dalla giurisprudenza  delle  sezioni  unite  penali  della  Corte  di
cassazione),  pur  dichiarando  la  non  fondatezza  della  questione
sollevata in riferimento all'art.  29  Cost.,  assume  una  posizione
nuova  rispetto  alle  sue  precedenti  pronunce.  Muovendo  da   una
interpretazione  evolutiva  dell'art.  2  Cost.,  afferma   che   «un
consolidato rapporto, ancorche'  di  fatto,  non  appare  -  anche  a
sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante  quando  si  abbia
riguardo  al  rilievo  offerto  al  riconoscimento  delle  formazioni
sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni  solidaristiche
(art. 2 Cost.). Tanto piu'  [...]  allorche'  la  presenza  di  prole
comporta  il   coinvolgimento   attuativo   d'altri   principi,   pur
costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione».
Anche la convivenza more uxorio, pur diversa dal  vincolo  coniugale,
merita una disciplina di tutela che la Corte sollecita il legislatore
a introdurre. 
    Un primo ampliamento della tutela del convivente more  uxorio  si
ha di li' a poco con la sentenza n. 404  del  1988.  Con  riferimento
specifico al diritto all'abitazione - che «rientra  fra  i  requisiti
essenziali caratterizzanti la socialita' cui  si  conforma  lo  Stato
democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 217 del  1988)  -
e' stata ritenuta costituzionalmente illegittima  una  disciplina  di
tutela dettata in materia di rapporto locatizio  per  il  coniuge,  i
parenti e gli affini conviventi, che escludeva  (nel  senso  che  non
prevedeva anche) il convivente more uxorio. L'art.  6,  primo  comma,
della legge 27 luglio 1978, n. 392  (Disciplina  delle  locazioni  di
immobili  urbani)  stabiliva  infatti  che,  in  caso  di  morte  del
conduttore, gli succedevano nel contratto il coniuge, gli eredi ed  i
parenti ed affini con lui abitualmente conviventi.  La  Corte  -  nel
ritenere  che  l'art.  2  Cost.  e'  violato   «quanto   al   diritto
fondamentale che nella privazione del tetto e' direttamente  leso»  -
ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale  di  tale  disposizione
nella parte in cui non prevede tra i successibili  nella  titolarita'
del contratto di locazione, in  caso  di  morte  del  conduttore,  il
convivente more uxorio (sentenza n. 404 del 1988). 
    In  seguito,  la  Corte  continua  a  riconoscere  «la  rilevanza
costituzionale del "consolidato rapporto"  di  convivenza,  ancorche'
rapporto di fatto», pur  sempre  «distinto  dal  rapporto  coniugale»
(sentenza n. 8 del 1996). E - aggiunge la  medesima  pronuncia  -  la
«distinta  considerazione  costituzionale  della  convivenza  e   del
rapporto coniugale, come tali,  non  esclude  affatto,  tuttavia,  la
comparabilita'  delle  discipline  riguardanti  aspetti   particolari
dell'una e dell'altro che possano presentare analogie,  ai  fini  del
controllo di  ragionevolezza  a  norma  dell'invocato  art.  3  della
Costituzione». 
    La convivenza more uxorio costituisce un rapporto  ormai  entrato
nell'uso ed e' comunemente accettato, accanto a  quello  fondato  sul
vincolo  coniugale.  Questa  trasformazione  della  coscienza  e  dei
costumi sociali, comunque, non  autorizza  la  perdita  dei  contorni
caratteristici delle due figure. La diversita' tra famiglia di  fatto
e famiglia fondata  sul  matrimonio,  in  ragione  dei  caratteri  di
stabilita', certezza, reciprocita' e corrispettivita' dei  diritti  e
doveri  che  nascono  soltanto  da  tale  vincolo,  giustificano   un
differente trattamento normativo tra i due  casi  che  trova  il  suo
fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale
riceve tutela diretta nell'art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004). 
    Ma vi sono, poi, gli «aspetti particolari». La Corte ricorda  che
«in relazione ad ipotesi  particolari,  si  possono  riscontrare  tra
convivenza more uxorio e  rapporto  coniugale  caratteristiche  tanto
comuni da rendere necessaria una identita' di disciplina, che  questa
Corte  puo'  garantire  attraverso  il  controllo  di  ragionevolezza
imposto dall'art. 3 Cost.» (sentenza n. 140 del 2009). 
    La valorizzazione di questo approccio, basato su un controllo  di
ragionevolezza  per  situazioni  "specifiche"  e  "particolari",   da
individuarsi caso per caso, si e' avuto nella  sentenza  n.  213  del
2016  che,  nel   dichiarare   costituzionalmente   illegittimo   per
violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., l'art.  33,  comma  3,  della
legge n. 104 del 1992 (come modificato dall'art. 24, comma 1, lettera
a, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante « Deleghe al  Governo
in materia di  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di  enti,  di
congedi,  aspettative  e  permessi,  di  ammortizzatori  sociali,  di
servizi   per   l'impiego,   di   incentivi    all'occupazione,    di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie  di  lavoro»),  nella  parte  in  cui  non  include   il
convivente tra i soggetti legittimati a fruire del  permesso  mensile
retribuito per l'assistenza alla persona con handicap  in  situazione
di gravita', in alternativa al coniuge, parente  o  affine  entro  il
secondo grado, sottolinea che, pur restando comunque diversificata la
condizione del coniuge  da  quella  del  convivente,  deve  ritenersi
irragionevole  e   logicamente   contraddittoria   l'esclusione   del
convivente dalla previsione di una  norma  che  intende  tutelare  il
diritto alla salute psico-fisica del disabile e «cio' in  particolare
- ma non solo - nei casi  in  cui  la  convivenza  si  fondi  su  una
relazione affettiva, tipica  del  "rapporto  familiare",  nell'ambito
della platea dei valori solidaristici postulati dalle  "aggregazioni"
cui fa riferimento l'art. 2 Cost.». 
    Questa  Corte  ha  ricordato  che  «la  distinta   considerazione
costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non  esclude
la comparabilita' delle discipline  riguardanti  aspetti  particolari
dell'una e dell'altro che possano presentare  analogie  ai  fini  del
controllo  di  ragionevolezza  a  norma  dell'art.  3  Cost.»;  e  ha
puntualizzato che «[i]n questo caso l'elemento unificante tra le  due
situazioni e' dato proprio dall'esigenza di tutelare il diritto  alla
salute psico-fisica del disabile  grave,  nella  sua  accezione  piu'
ampia, collocabile tra i diritti  inviolabili  dell'uomo  ex  art.  2
Cost.», mentre in caso contrario  «il  diritto  -  costituzionalmente
presidiato  -  del  portatore  di  handicap  di  ricevere  assistenza
nell'ambito  della  sua  comunita'  di  vita,  verrebbe   ad   essere
irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva  carenza
di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo,
ma in funzione di un dato "normativo" rappresentato dal mero rapporto
di parentela o di coniugio». 
    Piu' recentemente la rilevanza della convivenza di fatto e' stata
presa in considerazione dalla sentenza n. 10 del 2024. Questa  Corte,
affrontando la delicata questione dell'affettivita'  intramuraria  in
stato  di  detenzione,  non  ha  dubitato  della   inclusione   della
convivenza tra le relazioni affettive della persona che l'ordinamento
giuridico tutela «nelle formazioni sociali in cui esse si  esprimono,
riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la  liberta'
di vivere pienamente il sentimento  di  affetto  che  ne  costituisce
l'essenza».  Ha  quindi  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art.  18  della  legge   26   luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative  della  liberta'),  nella  parte  in  cui  non
prevede che la persona detenuta possa essere  ammessa  a  svolgere  i
colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con
lei stabilmente convivente. 
    8.- Anche nella giurisprudenza comune la convivenza  more  uxorio
trova riconoscimento. 
    La  giurisprudenza  civile  di  legittimita',  premesso  che   la
situazione  di  convivenza  resta  non  pienamente  assimilabile   al
matrimonio, sia sotto il profilo della stabilita' che di quello delle
tutele offerte al convivente, tanto nella  fase  fisiologica  che  in
quella patologica del rapporto, riconosce con orientamento  condiviso
che, in quanto «espressione  di  una  scelta  esistenziale  libera  e
consapevole, cui corrisponde anche un'assunzione di  responsabilita'»
verso il partner  e  il  nucleo  familiare,  l'instaurazione  di  una
stabile convivenza comporta la formazione di  un  nuovo  progetto  di
vita con il compagno  o  la  compagna  «dal  quale  possono  derivare
contribuzioni economiche che non rilevano piu' per l'ordinamento solo
quale adempimento di un'obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo
la  regolamentazione  normativa  delle  convivenze  di  fatto   (come
attualmente previsto dall'art. 1, comma 37, della  legge  n.  76  del
2016), anche l'adempimento di un  reciproco  e  garantito  dovere  di
assistenza morale e materiale» (Corte di  cassazione,  sezioni  unite
civili, sentenza 5 novembre 2021, n. 32198). 
    In particolare, nelle piu' recenti pronunce delle  Sezioni  unite
civili, in caso di scioglimento del matrimonio o dell'unione  civile,
si da' rilievo al periodo di convivenza, sia  prematrimoniale  (Corte
di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18  dicembre  2023,  n.
35385), che dell'ex  coniuge  (Corte  di  cassazione,  prima  sezione
civile, sentenza 7 febbraio 2023, n. 3645 e ordinanza 5 maggio  2022,
n.  14256),  quanto  alla  determinazione  dell'assegno  divorzile  o
dell'assegno di mantenimento  (Corte  di  cassazione,  prima  sezione
civile, ordinanza 12 dicembre 2023, n.  34728),  e  della  convivenza
antecedente l'unione civile per  la  determinazione  dell'assegno  in
favore  del  componente  dell'unione  civile  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili, sentenza 27 dicembre 2023, n. 35969). 
    L'accertamento dell'esistenza della  convivenza  -  intesa  quale
legame affettivo  stabile  e  duraturo  in  virtu'  del  quale  siano
spontaneamente  e  volontariamente  assunti  reciproci   impegni   di
assistenza morale e materiale -  rileva  in  tante  altre  situazioni
specifiche: sul risarcimento del danno  da  perdita  della  vita  del
convivente (Corte di cassazione, sezione terza civile,  ordinanze  13
aprile 2018, n. 9178 e 16 settembre 2008, n. 23725); sulla sofferenza
provata dal  convivente  in  conseguenza  dell'uccisione  del  figlio
unilaterale del partner (Corte di cassazione, sezione  terza  civile,
sentenza  21  aprile  2016,   n.   8037);   ai   fini   dell'indebito
arricchimento (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 7
giugno 2018, n. 14732); ai  fini  della  legittimazione  ad  esperire
l'azione di spoglio (Corte di  cassazione,  seconda  sezione  civile,
sentenza  2  gennaio  2014,  n.  7);  sulla  detenzione   qualificata
dell'immobile adibito a casa familiare  assegnato  all'ex  convivente
genitore collocatario di figli minori  (Corte  di  cassazione,  prima
sezione civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971). 
    9.- Dal suo canto la giurisprudenza penale di legittimita' - gia'
sopra  richiamata  -  converge  verso  interpretazioni  estensive  al
convivente di fatto di disposizioni che,  tradizionalmente,  facevano
esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio. 
    Particolarmente significativa - come e' gia' stato sopra rilevato
- e' l'estensione al convivente more uxorio del perimetro applicativo
della «scusante soggettiva» di cui all'art. 384,  primo  comma,  cod.
pen.,  operata  in  via  interpretativa  dalla  Corte  di  cassazione
(sentenza n. 10381 del 2021). 
    10.- Nell'ambito europeo, l'adeguamento dell'ordinamento  interno
al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro  paese  ha
trovato conforto e a volte  stimolo  nei  principi  della  CEDU  (che
all'art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto  della  vita  privata  e
familiare») e in quelli della CDFUE  (che  all'art.  9  riconosce  il
«Diritto   di   sposarsi   e   di    costituire    una    famiglia»);
l'interpretazione  di   tali   principi   ad   opera   degli   organi
giurisdizionali   sovranazionali   si   orienta   nel    senso    del
riconoscimento della tutela dei diritti legati alla  vita  privata  e
familiare all'unione di due persone in se',  anche  se  dello  stesso
sesso, a prescindere dalla celebrazione del  matrimonio,  purche'  la
stessa sia connotata da stabilita'. 
    Che la vita dei conviventi di fatto rientri nella  concezione  di
vita   "familiare"   e'   una   nozione   ormai   consolidata   nella
giurisprudenza della Corte EDU in sede di  interpretazione  dell'art.
8, paragrafo 1, (Corte EDU, sentenza 13 giugno  1979,  Marckx  contro
Belgio; Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1986, Johnston e altri contro
Irlanda; Corte EDU, sentenza 26 maggio 1994, Keegan  contro  Irlanda;
Corte EDU, sentenza 5 gennaio 2010, Jaremowicz contro Polonia;  Corte
EDU, sentenza 27 aprile 2010,  Moretti  e  Benedetti  contro  Italia;
Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, Schalk and Kopf  contro  Austria;
Corte EDU, sentenza 3 aprile  2012,  Van  der  Heijden  contro  Paesi
Bassi;  Corte  EDU,  grande  camera,  sentenza   7   novembre   2013,
Vallianatos contro Grecia; Corte EDU, sentenza Oliari ed altri contro
Italia); l'ambito soggettivo della nozione  di  «vita  familiare»  ai
sensi dell'art.  8  CEDU  include  sia  le  relazioni  giuridicamente
istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia,
infine, quelle che costituiscono "famiglia" in  senso  sociale,  alla
condizione che sussista l'effettivita' di stretti e comprovati legami
affettivi. 
    Anche l'art. 9 CDFUE, nel riconoscere il  «diritto  di  sposarsi»
tra le liberta' fondamentali tutelate in modo  disgiunto  e  autonomo
rispetto al «diritto di fondare  una  famiglia»,  ha  realizzato  una
significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto  ponendo
le basi per un avanzamento nelle  possibilita'  di  protezione  della
molteplicita' e varieta' delle relazioni ad esse riconducibili. 
    11. - In sintesi, vi e'  stata  una  convergente  evoluzione  sia
della normativa  (punto  3  e  seguenti),  sia  della  giurisprudenza
costituzionale (punto 7), comune (punti 8 e 9) ed europea (punto 10),
che ha dato piena dignita' alla famiglia composta  da  conviventi  di
fatto. 
    Il modello secondo la  scelta  del  Costituente  e'  la  famiglia
fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). 
    Permangono, quindi,  differenze  di  disciplina,  ma,  quando  si
tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la  tutela  non
puo' che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del  diritto
all'abitazione (sentenza n. 404 del  1988),  o  della  protezione  di
soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell'affettivita'  di
persone detenute (sentenza n. 10 del 2024). 
    Parimenti fondamentale e' il diritto al  lavoro  (artt.  4  e  35
Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che,
quando reso nel contesto di  un'impresa  familiare,  richiede  uguale
protezione. 
    Come si e' gia' visto, la disciplina dell'impresa familiare  -  a
differenza di quella dell'impresa coniugale (art. 177,  primo  comma,
lettera  d,  cod.  civ.),  che  concerne  specificamente  il   regime
patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi -  mira  a
tutelare il lavoro "familiare", quale fattispecie intermedia  tra  il
lavoro  subordinato  vero  e  proprio   e   quello   gratuito,   reso
"affectionis  vel  benevolentiae  causa".  La  difficolta'   per   il
prestatore di provare la subordinazione in siffatto  contesto  finiva
prevalentemente per attrarre la  prestazione  nella  fattispecie  del
lavoro gratuito, privo di effettiva protezione. 
    Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro e'
stata realizzata dall'art. 230-bis cod. civ., secondo la  scelta  del
legislatore della riforma del diritto di famiglia del  1975,  con  un
ampio raggio di applicazione perche' abbraccia non solo il coniuge  e
gli stretti congiunti dell'imprenditore, ma  anche  tutti  i  parenti
fino al terzo grado e  gli  affini  fino  al  secondo  grado  secondo
l'elencazione  contenuta  nel   terzo   comma   della   disposizione;
elencazione alla quale deve ritenersi  che  si  siano  aggiunti,  nel
2016, i soggetti legati da unioni civili. 
    Ma anche il convivente more uxorio versa nella stessa  situazione
in cui l'affectio maritalis fa sbiadire l'assoggettamento  al  potere
direttivo dell'imprenditore, tipico  del  lavoro  subordinato,  e  la
prestazione lavorativa rischia  di  essere  inesorabilmente  attratta
nell'orbita del lavoro gratuito. Si  smarrisce  cosi'  l'effettivita'
della protezione del lavoro del convivente che, in termini  fattuali,
non differisce da quello del lavoro  familiare  prestato  da  chi  e'
legato all'imprenditore da  un  rapporto  di  coniugio,  parentela  o
affinita'. 
    E' vero che successivamente il legislatore  ha  posto  rimedio  -
solo parzialmente e in termini ingiustificatamente discriminatori - a
questa carenza quando, nell'istituire le unioni civili, ha introdotto
una fattispecie dimidiata di partecipazione all'impresa familiare del
convivente di fatto (art. 230-ter cod. civ.). 
    A differenza delle unioni civili, questa esigenza di garanzia del
lavoro reso nell'impresa familiare sussisteva gia' prima in  presenza
di convivenze di fatto che richiedevano la stessa  tutela  di  questo
diritto fondamentale. La protezione  del  lavoro  del  convivente  di
fatto doveva essere la stessa di quella  del  coniuge  e  non  poteva
essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo
grado  che  prestasse  la  sua  attivita'   lavorativa   nell'impresa
familiare. 
    Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro
(artt. 4 e 35 Cost.) e  alla  giusta  retribuzione  (art.  36,  primo
comma, Cost.), in un contesto di  formazione  sociale,  quale  e'  la
famiglia di fatto (art.  2  Cost.).  Anche  l'art.  3  Cost.  risulta
violato «non per la  sua  portata  eguagliatrice,  restando  comunque
diversificata la condizione del coniuge  da  quella  del  convivente»
(sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorieta' logica della
esclusione del convivente dalla  previsione  di  una  norma  posta  a
tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale  strumento  di
realizzazione della dignita' di ogni persona, sia  come  singolo  che
quale componente della  comunita',  a  partire  da  quella  familiare
(ancora, art. 2 Cost.). 
    12.- La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va
operata  inserendo   il   convivente   di   fatto   dell'imprenditore
nell'elenco  dei  soggetti  legittimati  a  partecipare   all'impresa
familiare di cui al terzo comma dell'art. 230-bis cod. civ., e quindi
prevedendo come impresa familiare  quella  cui  collabora  anche  «il
convivente di fatto». 
    Ai conviventi di  fatto,  intendendosi  come  tali  «due  persone
maggiorenni unite stabilmente da legami  affettivi  di  coppia  e  di
reciproca assistenza morale e materiale» (art.  1,  comma  36,  della
legge  n.  76  del  2016),  vanno  dunque  riconosciute   le   stesse
prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della  persona
unita civilmente all'imprenditore. 
    13.- Pertanto  -  assorbito  l'esame  degli  ulteriori  parametri
evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma,  Cost.,  in  relazione
agli artt. 8  e  12  CEDU)  -  si  deve  dichiarare  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., nella parte
in cui non prevede come familiare anche il «convivente  di  fatto»  e
come impresa familiare quella cui collabora anche il  «convivente  di
fatto». 
    14.- L'ampliamento della tutela apprestata dall'art. 230-bis cod.
civ. al convivente di fatto per effetto della predetta  pronuncia  di
illegittimita' costituzionale fa  si'  che  la  previsione  dell'art.
230-ter cod. civ. avrebbe oggi il significato non piu' di  apprestare
per   quest'ultimo   una   garanzia   prima   non   prevista,    come
nell'intendimento  del  legislatore  del  2016,  bensi'   quella   di
restringere -  ingiustificatamente  e  in  modo  discriminatorio  (in
violazione dell'art. 3, primo comma, Cost.) - la  piu'  ampia  tutela
qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il  diritto
fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.),  oltre  che  il  diritto
alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). 
    Pertanto, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n.  87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale), la dichiarazione di illegittimita' costituzionale va
estesa  in  via  consequenziale  all'art.  230-ter  cod.  civ.,   che
attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata  dal  mancato
riconoscimento  del  lavoro  «nella   famiglia»,   del   diritto   al
mantenimento,  del  diritto  di  prelazione   nonche'   dei   diritti
partecipativi, e quindi significativamente piu'  ridotta  rispetto  a
quella che consegue all'accoglimento  della  questione  sollevata  in
riferimento all'art. 230-bis cod. civ. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  230-bis,
terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non  prevede  come
familiare anche il «convivente di fatto»  e  come  impresa  familiare
quella cui collabora anche il «convivente di fatto»; 
    2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art.  27  della
legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla  costituzione  e   sul
funzionamento   della   Corte    costituzionale),    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 230-ter cod. civ. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta il 4 luglio 2024. 
 
                                F.to: 
                 Augusto Antonio BARBERA, Presidente 
                     Giovanni AMOROSO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2024 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA